La rivolta autonomistica del Vespro (1282) genera in Sicilia un’importante fioritura storiografica che si esprime, oltre che in numerose cronache minori latine e volgari, in quattro grandi cronache in latino: la Historia Sicula di Bartolomeo da Neocastro, il Liber de gestis Siculorum sub Friderico rege et suis di Niccolò Speciale, la Cronica Sicilie anonima e l’Historia Sicula attribuita a Michele da Piazza.
Il motivo comune e la ragion d’essere di queste cronache, in particolar modo delle prime tre, è la rivendicazione della legittimità del regno autonomo siciliano nato dalla rivolta contro Carlo d’Angiò.
La corona di questo regno insulare fu assunta da una nuova dinastia che si designava come erede della monarchia normanno-sveva, quella catalano-aragonese di Pietro III e dei suoi discendenti cadetti (Giacomo II, Federico III, Pietro II, Ludovico, Federico IV).
La dinastia catalano-aragonese, infatti, fondava i suoi diritti al trono siciliano sulla discendenza dagli Hohenstaufen, in quanto Pietro III nel 1262 aveva sposato Costanza di Svevia, figlia di Manfredi e dunque nipote dell’Imperatore e re di Sicilia Federico II.
Tra la fine del XIII e la metà circa del XIV secolo la scrittura della storia diventa, pertanto, in Sicilia una delicata e importante «questione» politica. Nell’isola è probabilmente la Corona a «sollecitare», in particolare, due opere come la Cronica Sicilie e quella di Niccolò Speciale, che, sebbene molto diverse nella struttura e nel gusto letterario e stilistico, sono accomunate dal carattere di ufficialità o di semi-ufficialità con il quale è presentata, grazie ad espedienti come l’utilizzazione o l’inserzione di documenti originali di cancelleria, la ricostruzione degli ultimi secoli della storia siciliana.
Tale ricostruzione altro non è che la «versione» della storia che la Corona gradisce sia raccontata, pubblicizzata e propagandata. Partendo da pochi essenziali dati storici e da un piccolo, ma forte sul piano ideologico, nucleo di documenti di cancelleria, e utilizzando con una certa abilità anche le armi della retorica, i nostri cronisti propongono una versione della storia che, al di là dei suoi limiti e delle sue ingenuità, testimonia una volontà consapevole di «costruire» una verità storica, di proporre un’interpretazione del presente nient’affatto spassionata o neutrale, ma schiettamente di parte, presentandola come un dato certo e incontrovertibile, con il crisma dell’«autenticità» e della «veridicità».
Le testimonianze del passato più che indagate, sono utilizzate e re-inventate, per giustificare la politica e l’ideologia del presente.
Per questa via i cronisti siciliani dell’età del Vespro trovano in una pretesa tradizione, che solo adesso e a questo scopo in realtà viene «canonizzata», gli strumenti di legittimazione e di giustificazione del presente, ma al contempo fondano essi stessi una tradizione storiografica che avrà lunghissima fortuna. L’interpretazione del Vespro che essi propongono, infatti, si affermerà e continuerà a vivere per secoli non solo in Sicilia e sarà ripresa nei suoi elementi fondamentali, ancora nel XIX sec., da Michele Amari nella sua Guerra del Vespro che rimane tutt’oggi, al di là dell’impostazione ideologica superata, un testo fondamentale.
L’opera di Michele Amari fu pubblicata per la prima volta in Sicilia nel 1842 ma la parte più significativa del titolo, La guerra del Vespro, fu cassata dalla censura Borbonica e la prima edizione reca come titolo quello che originariamente era il sottotitolo: Un periodo di istorie siciliane del secolo XIII. Un rinnovato interesse verso questa vicenda storica fu suscitato dall’opera verdiana I Vespri Siciliani che ebbe una prima rappresentazione in francese a Parigi nel giugno 1855 e quindi in italiano a Venezia nel dicembre dello stesso anno.